Il sole fa capolino all’orizzonte, alzandosi pallido tra i profili delle montagne.

Fango e macerie. Le acque della Piave sono ridotte a piccole polle. Qua e là si scorgono una sedia, un pezzo di armadio. Qualche mattone, qualche cassetta per gli attrezzi. 

Chissà se è questa la scena che si sono trovati davanti i soccorritori quel mattino. Io me la sono immaginata così. Riflettendoci, non ho pensato al durante, ma al “dopo Vajont”. 

Il silenzio. Pesante e assordante.

9 ottobre 1963. Ore 22.39. Una sera di un mercoledì autunnale. 57 anni fa, nel confine tra la provincia veneta di Belluno e quella friulana di Pordenone, dal monte Toc si stacca un’enorme frana. Milioni di metri cubi di acqua, terra e roccia cadono nel bacino idroelettrico del fiume Vajont. La diga allora più alta del mondo. Le acque del Vajont scavalcano la diga, creando prima un’onda d’urto e arrivando a sconfinare nel fiume Piave.

Lungo le sponde del lago vennero distrutti numerosi borghi, compresa la parte bassa del paese di Erto.
Nella Valle della Piave i paesi di Longarone, Pirago, Faè, Villanova e Rivalta scompaiono. Codissago, Castellavazzo, Fortogna, Dogna e Provagna subiscono gravi danni. 

Quasi 2000 le vittime di quello che è stato soprannominato il “disastro del Vajont”. 

Non ho vissuto la vicenda. Non ero ancora nata. Ma molte delle persone che conosco e che vivono nel trevigiano (quindi a distanza di circa 60 km), raccontano, ricordando quella nottata, d’un boato assordante provenire dal Piave e di uno scrosciare improvviso e impetuoso d’acqua.

Oggi, 9 ottobre, a Longarone, a Erto e a Casso, tutto è chiuso.

Numerose sono le iniziative e le commemorazioni organizzate in concomitanza e a ridosso dell’anniversario.

Lascio alcuni indirizzi e qualche immagine di riferimento:

Non so cosa scrivere in più; non voglio cadere nei soliti clichè della tragedia e del disastro, né aggiungere altri dettagli. Non ho gli strumenti né le conoscenze adeguate per farlo. Tanto è stato detto e si dice ancora oggi, per fortuna. In questo mare magnum che è il web, nei siti e nei social network, come YouTube, si possono trovare filmati, documentari, racconti, testimonianze, immagini valide e attendibili. Per non parlare poi delle fonti dirette. Basta fare una telefonata, chiedere informazioni. Per chi ha la possibilità o ha l’intenzione di recarsi nel luogo diretto dell’accaduto, fare una chiacchierata con i “superstiti” (alcuni dei quali, per fortuna nostra, ancora passeggiano tra le vie dei paesi ricostruiti). L’invito perciò che faccio a tutti coloro che stanno leggendo, è di informarsi. Informarsi, cercare. E cercare di capire. Sforzarsi di comprendere, e di arrivare a una propria verità. E soprattutto di parlarne. 

Parlatene a casa, al bar, al ristorante, per strada; parlatene con la famiglia, i compagni, gli insegnanti, perfino gli amici (sì, anche con loro). 

Confrontatevi su questo argomento; discutetene. 

Raccontate e fate conoscere a chi ancora questa storia non la sa. Ai giovani. A noi giovani, mi permetto di dire. Sono tante le cose che ancora non so riguardo a questa vicenda.

Qualcosa è stato fatto ma ancora di più se ne ha ancora da fare. L’aspetto più importante, concedetemi per questa volta un clichè, è che questa vicenda non cada nel dimenticatoio.


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