
Gli ospedali nel medioevo erano… ospitali.
Erano cioè dei luoghi che offrivano ospitalità a chi ne avesse bisogno, ai pellegrini, ai mercanti, ai poveri, ai crociati.
Non erano gli ospedali che conosciamo oggi, quelli per i malati.
Piuttosto gli ospedali di ottocento o novecento anni fa erano delle case di pietà in cui erano ospitati i poveri e i pellegrini (ancora adesso, in lingua veneta, dire a uno “pellegrìn” vuol dire considerarlo un povero) e tutti quelli che non erano in grado di pagarsi un letto in una locanda.
Ne troviamo tanti di questi ospitali in tutto il Veneto e in tutta Europa.
Per chi abita nella mia terra tra la Piave e la Brenta riconosce ancora adesso alcuni siti ospitalieri, come la chiesetta di san Giacomo lungo la Feltrina o il caseggiato vicino alla chiesa di Pagnano.
Frequentavano gli ospitali medievali tre tipologie di persone: i forestieri, i poveri e gli infermi, cioè i poveri che avevano malattie o menomazioni non curabili (come i ciechi, gli storpi, ecc.).
C’è poi un ospitale nato nel medioevo e tuttora esistente: è l’ospedale di Valdobbiadene, nella provincia di Treviso, sulla sinistra Piave, ultima terra settentrionale della diocesi di Padova (e infatti l’ospedale in origine era titolato a san Prosdocimo, primo vescovo di Padova)
A fondarlo, il 18 luglio 1259, è stato un certo Guglielmo Guicciardini un ricco possidente locale: fu Guicciardini a donare terra e fondi (il cosiddetto “beneficio”) perché l’ospedale che veniva costruito doveva accogliere i poveri cristiani e gli infermi delle quindici comunità della valle della Piava.
La costruzione sorse in località Ron di Valdobbiadene, secondo le indicazioni che l’Ospitale Ognissanti di Treviso impartiva alla grande fabbrica che si stava erigendo.
Fin da subito dopo la morte del Guicciardini (avvenuta forse nel 1264) sorsero delle controversie sul rispetto delle volontà testamentarie del donatore: non si capiva chi avrebbe potuto usare le rendite e quali dovevano essere i destinatari del beneficio .
Cioè chi erano i poveri e i bisognosi di cui parlava Guicciardini nel suo testamento?
Per superare queste dispute il beneficio passò in commenda.
Cosa sia una commenda non lo voglio neanche dire perché si tratta di un tipo di contratto troppo lontano nel tempo e sarebbe difficile da applicare a esempi attuali…
Diciamo, semplicemente, che la commenda è l’affidamento di un beneficio a qualcuno perché lo amministri e ne traggo usufrutto.
Insomma, tra diverse vicende e anche grandi baruffe, si arrivò alla stesura di uno statuto (un testo di accordo scritto) che rappresentava il compromesso tra gli interessi delle “ville” (le comunità) che facevano capo all’ospedale.
Venezia, che nel frattempo si era impadronita del Veneto, approvò lo Statuto.
L’ospedale venne finalmente aperto e non ci volle molto tempo per riempirlo.
E per secoli e secoli, fino al 1999, svolse opere di carità, assistenza ai bisognosi e agli inoperosi, cura ai malati e ai pellagrosi.
A Valdobbiadene, nell’ospedale che porta da allora il nome non più di san Prosdocimo ma di Guglielmo Guicciardini, trovarono conforto e sanamento i vaiolosi, gli scorbuti, i pazzi, gli epilettici, gli isterici, i tubercolotici, gli anemici, i colerosi, gli enterici…
Nel 1859 la struttura ebbe la qualifica di “Ospitale pubblico” e fu amministrata dalla locale Congregazione di Carità (così si chiamava allora l’ente pubblico di assistenza).
Il re d’Italia, nel 1879, concesse all’ospedale Guicciardini di Valdobbiadene la piena autonomia amministrativa permettendo così di ricevere offerte e donazioni, di espandere la sua struttura e aumentare gli interventi di cura.
Nel 1885, accanto all’ospedale entrò in funzione la Casa di salute femminile che, fino al 1980, continuò a curare donne di tutte le età e da tutto il Veneto, affette da mali debilitanti e spesso incurabili
La Guerra Granda ha fatto anche qui (e soprattutto qui, sulle sponde della Piave) quello che tutti sappiamo danneggiando gravemente gli edifici e le attrezzature.
Quando fu chiuso l’ospedale Guicciardini di Valdobbiadene era il 1999.
Fu un dispiacere per tutti, per tutti.
Allora si parlava di razionalizzazione delle strutture sanitarie, di concentrazione delle eccellenze e di altre cose così.
Con quello di Valdobbiadene, vennero chiusi anche gli ospedali di Asolo, di Pederobba, di Crespano…
Chiusero quei centri piccoli ma familiari che potevano dare una cura alle popolazioni pedemontane che si angustiano quando le porti via dalle loro terre.
C’era del buono anche nei discorsi di razionalizzazione, intendiamoci.
E certamente il nostro sistema sanitario veneto (voluto da una grande donna trevigaiana) è un sistema eccellente.
Ma la notizia che tra due giorni sarà riaperto l’ospedale Guicciardini di Valdobbiadene mi ha fatto piacere.
Sarà la sede in cui potrebbero essere ricoverati i malati di questo terribile coronavirus.
Nel suo testamento, Guicciardini lasciava “un maso di colle della Villa di capopieve di Dobladino” (un pezzo di terra) alla chiesa parrocchiale di Valdobbiadene.
Ma in cambio di quella donazione ha preteso di “far ardere un consendillo”, cioè di far accendere una lampada ad olio, per l’anima sua, davanti all’immagine della Madonna.
Credo che sia arrivato il momento di accendergliela quella lampada.
E di aggiungerci anche un’ave Maria alla Madonna della Salute che di questi tempi ne abbiamo di bisogno.
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